Se Bologna celebra le star internazionali del jazz e i suoi cantautori, è doveroso ricordare che, a cavallo tra gli anni 1970 e 1980, il capoluogo emiliano è stato un centro nevralgico per il movimento punk in Italia.
[DOC] LAIDA BOLOGNA
Il sottobosco del punk cittadino è particolarmente intricato e non può essere riassunto alla parabola di questi due complessi capostipiti. In inglese, punk può significare «rifiuto», «scarto», «delinquente», «prostituta», varie accezioni che rimandano comunque sempre alla trivialità e alla marginalità. Il movimento punk stesso è polisemico: trattasi innanzitutto di una corrente musicale che esaspera l’urgenza del rock’n’roll, aumentando i battiti per minuti, saturando ancora di più il suono delle chitarre.
Le canzoni sono brevi, i testi essenziali esprimono disagio sociale, rabbia politica, distacco ironico. Il punk è anche una subcultura, come la definisce lo studioso Dick Hebdige che dedica uno dei primi studi al movimento nascente; una sottocultura con un’estetica propria e una filosofia, quella del «do it yourself»: chiunque può suonare, scrivere, creare una fanzine, contano di più la sfrontatezza e la cocciutaggine che non la preparazione tecnica. È quanto simboleggia anche la moda punk, fatta di elementi disparati tenuti assieme con le spille da balia.
Gli Skiantos e il Movimento del '77
È impossibile parlare del Movimento del ’77 senza menzionare gli Skiantos, gruppo simbolo della controcultura bolognese: capitanati dall’imprevedibile Roberto «Freak» Antoni, essi catturano lo zeitgeist di una città in preda ai fermenti politici e poetici. L’avventura degli Skiantos incrocia spesso quella del piccolo gruppo di agitatori culturali della rivista A/traverso e di Radio Alice (capitanati da Franco « Bifo » Berardi, leader del Settantasette bolognese), la radio libera che emette da una soffitta in via del Pratello e dà voce alle rivendicazioni plurali del movimento così come alla «immaginazione al potere» degli Indiani metropolitani.
Gli Skiantos frequentano pure un altro appartamento centrale nella genesi del Movimento del ‘77, la così battezzata Traumfabrik («fabbrica dei sogni») del fumettista Filippo Scòzzari, una sorta di Factory, appunto, in cui artisti di ogni risma si incontrano e scambiano idee, pratiche e droghe. Questa pratica emula quella della Beat Generation e dei suoi scrittori che battevano sulle macchine da scrivere seguendo il rimo sincopato delle improvvisazioni bebop: le pagine di Andrea Pazienza sono intrise di riferimenti musicali e riproducono, in un certo senso, con i loro collage di stili eterogenei, le armonie distorte del punk-rock.
Nella Traumfabrik vede così luce il Centro d’Urlo Metropolitano, i cui membri confluiranno in seguito nel gruppo Gaznevada. La droga ha un ruolo centrale nella casa: «Mamma dammi la benza», hit del Centro d’Urlo/Gaznevada e vero e proprio inno del movimento, evoca gli stati alterati di chi sente la «mancanza» di «benza» (la benzedrina), di chi non può «farne senza» e sa di essere in preda alla «dipendenza»…
I riff di chitarra, avvolti in un lisergico effetto phaser, seguono la tradizionale struttura metrico-armonica del rock’n’roll ma con un piglio sfrenato che traduce forse l’accelerassi del ritmo cardiaco di chi è in preda allo sballo oppure all’adrenalina dello scontro politico: «non resta che la violenza/per romper la sorveglianza», «noi siamo la delinquenza/noi non portiamo pazienza». Parole che, nel 1977, risuonano fortemente, rimandando alle vicissitudini dei «non garantiti» e all’inasprirsi delle piazze italiane.
Il Movimento del ’77 bolognese, fedele agli insegnamenti delle avanguardie storiche del futurismo, del dadaismo o del situazionismo, mette in atto una rigorosa iconoclastia generalizzata ricorrendo ad un uso massiccio dell’ironia; un’ironia avvolgente e totalizzante, carnevalesca, che prende di mira le figure del potere, le ovvietà e le tradizioni, rovescia la quotidianità e dà luogo ad un tempo sospeso in cui s’insinua la possibilità di cambiamenti repentini.
Gli Skiantos adoperano il modus operandi dell’approccio degradante: nel loro manifesto artistico, Inascoltable, album d’esordio per gran parte improvvisato e registrato in un’unica notte, Freak Antoni e colleghi rivendicano la loro natura di musicisti «negati», dediti al rumore («schianto», appunto) più che all’orecchiabilità. Se il concetto è altamente labile e cambia a seconda delle dichiarazioni, il demenziale potrebbe definirsi come uno sfasamento e uno scollamento rispetto alla logica, alla norma e alla salute mentale. L’uso della lettera «k» nel nome del gruppo e nei titoli delle canzoni: «Makaroni», «Kakkole», «Sesso e Karnazza»…
Questa contaminazione alfabetica straniera, che rimanda ad un uso politico della storpiatura dei cognomi e delle parole (« Kossiga », « l’imperialismo amerikano »), ma anche in un certo modo alla parola punk, è associata al recupero di un registro basso e carnevalesco, dal cibo al sesso passando dalle secrezioni. L’uso di giochi di parole, lapsus, difetti di pronuncia che corrompono il senso originale di un’espressione, aprendo così nuove prospettive di interpretazioni deliranti.
Sul palco, gli Skiantos indossano magliette e portano cartelli che recano scritte demenziali: «Sì, ero positivo», «Lardo ai giovani». L’introduzione di «Eptadone», pietra miliare degli Skiantos che figura nel loro secondo album Mono TONO (il cui titolo insiste, ancora una volta, sull’anti-musicalità), consiste in un memorabile siparietto in uno slang bolognese contaminato dal gergo dello droga.
Questi valori fondativi dell’anti-arte poetica degli Skiantos sono scelte consapevoli e dissacranti: l’effetto esasperante delle rime banali, la disarmante pochezza delle tematiche affrontate, le spiazzanti libere associazioni («sesso e gianduia») mirano in realtà a ritrovare la forza onomatopeica e catartica del rock anglo-sassone.
La follia demenziale rimanda, per certi riguardi, all’arte dei pagliacci: il demente indossa una maschera che, nella sua esagerazione, riesce a svelare significati reconditi e creare effetti nel pubblico. Il frontman del primo punk-rock non è più il divo dionisiaco alla Jim Morrison o alla Robert Plant, non evoca più la figura del poeta maledetto; nonostante la loro apparente scarsità, i testi di Antoni sono pregni di un nonsense piuttosto raffinato, da riallacciare alla tradizione britannica e soprattutto a Lewis Caroll.
Nella sua tesi di laurea dedicata ai Beatles (sempre sotto la direzione di Celati), Antoni teorizza già la sua anti-arte poetica, soffermandosi sulle difficoltà dell’importare il fenomeno rock in Italia: la musica vi è troppo legata ai canoni del bel canto e della canzone napoletana e non riesce a trasmettere la forza dirompete dell’inglese. La lingua italiana, accentata e scarseggiante di parole tronche, richiede un maggiore sforzo per essere piegata al ritmo e alle sonorità di derivazione rock’n’roll.
Se il rock rimane nelle coordinate dei gruppi musicali legati al Movimento del ’77, si scorgono già alcune peculiarità meramente punk, prima di tutto la tendenza al do it yourself: non-musicisti si affidano a non-fonici e a non-produttori per dare sfogo alla loro urgenza espressiva. L’avventura dei primi gruppi è così anche un’avventura «proto-imprenditoriale», con l’etichetta indipendente Harpo’s Bazaar di Oderso Rubini che muove in primi passi nel mondo della produzione.
Il Bologna Rock del 1979
Nel 1979, i musicisti del sottobosco bolognesi si radunano, dietro iniziativa della Harpo’s Bazaar, nel Palazzetto dello Sport in occasione del «Bologna Rock». L’evento, sottotitolato «dalle cantine all’asfalto», vuole portare alla luce la ricchezza del milieu musicale, far emergere l’underground cittadino. Sul palco del Palazzetto dello Sport, quindi, si esibiscono i seguenti artisti: Skiantos, Windopen, Luti Chroma, Gaznevada, Bieki, Rusk und Brusk (noti per il tormentone «Merda a mezza gamba»), Naphta, Confusional Quartet (tutti rigorosamente vestiti di bianco come i drughi di Arancia meccanica), l’armonicista americano Andy J. Forest (& the Stumblers), Frigos, Cheaters (il cui cantante sembra un sosia di David Bowie).
Il grande successo del Festival rappresenta un momento simbolico molto forte che annuncia una certa rinascita dello spirito degli Indiani metropolitani o comunque una continuazione della creatività, proprio nel luogo in cui si era consumato il drammatico divorzio delle forze politiche del movimento in occasione del Convegno contro la repressione (settembre 1977).
Gli Skiantos sono l’attrazione principale del Bologna Rock: fedeli alla loro indole provocatrice, trasformano però la loro esibizione in un happening non-musicale. Il gruppo si presenta sul palco con un frigorifero, un televisore, un tavolo, un forno e un piano cottura sul quale bolle una pentola d’acqua: anziché suonare le loro canzoni, i musicisti mettono in scena una spaghettata. La beffa è situazionista e carnevalesca: tra l’altro, gli Skiantos indossano imbuti e scolapasta a mo’ di cappelli, come nelle rappresentazioni medievali dei pazzi e dei buffoni.
Nel Palazzetto, luogo per eccellenza dell’agonismo sportivo e politico, il non-concerto degli Skiantos scatena reazioni di violenza simbolica come testimoniano gli scatti di Enrico Scuro: il palco è coperto dai detriti lanciati dal pubblico.
La Spaghettata come Atto di Rottura
Il 2 aprile 1979 alla kermesse di Bologna Rock gli Skiantos decisero di chiudere definitivamente con quel gioco. Fu un momento molto drammatico. Dal giorno successivo a quella spaghettata sul palco molte persone, ritenute amiche, ci tolsero il saluto. La provocazione era stata troppo forte e inaccettabile per tanti. Non capimmo che il pubblico, che ritenevamo nostro complice, non fosse preparato a quell’affronto. Fu la fine del gioco. Ci rendemmo conto che ogni bel divertimento dura poco.
La performance della pasta. La famosa, o insomma quasi famosa, spaghetti performance, era un esplicito rifiuto della musica moderna. Nel senso che il rock era ormai arrivato a degli stilemi, a dei modelli talmente ripetitivi, talmente ripiegati su se stessi, talmente banali, che tanto valeva rinunciare a suonarlo. Rinunciare a fare l’ennesimo concertino rock progressive, per cucinarsi invece la pasta. L’idea era quella di dire rinunciamo al rock cervellotico. Rinunciamo a tutti questi messaggi, che conosciamo ahimè benissimo. E facciamo una cosa diversa. Una spaghettata sul palcoscenico.
La provocazione degli Skiantos assume così i connotati di un evento spartiacque che annuncia diatribe e cambiamenti profondi sulla scena musicale bolognese. In conclusione, l'esperienza degli Skiantos al Bologna Rock, con la loro performance dissacrante della "spaghettata", rappresenta un momento chiave nella storia della controcultura italiana.
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