Fin da bambina ho amato Totò, forse perché napoletana, forse perché mio padre mi ha trasmesso la passione per questo grande personaggio. Unendo tutti questi ingredienti il cinefilo potrà citare, inevitabilmente, solo Miseria e Nobiltà, commedia del 1954 diretta da uno dei registi di fiducia di Totò, Mario Mattoli, ma già rappresentata da settanta anni nei teatri, derivando da un testo di Eduardo Scarpetta, padre naturale del clan De Filippo. Insomma ci troviamo a livelli decisamente alti, narrativamente parlando.
Alcune opere cinematografiche riescono a intrappolare l’essenza stessa di un particolare momento storico. Certi film sono in grado di cogliere i vezzi, le abitudini e le criticità di un’epoca e, di solito, sono proprio quel tipo di pellicole a sopravvivere al tempo, incastonate per sempre nell’immaginario collettivo.
Miseria e nobiltà è la più nota tra le commedie di Eduardo Scarpetta, il padre naturale dei De Filippo, recentemente tornato in voga grazie alle interpretazioni di Toni Servillo e Giancarlo Giannini nei film di Martone e Rubini. Il primo atto della commedia si svolge tutto in uno squallido “quartino” di Napoli, dove vivono perennemente affamate le due famiglie di Felice Sciosciammocca e Pasquale Semmolone. Un quadro di vita sociale che tocca spesso le corde della commozione (soprattutto nel personaggio di Peppiniello, il figlio di Felice), ma in cui prevale ovviamente il lato comico.
Totò, al secolo Antonio De Curtis (1898-1967) interpreta Felice Sciosciammocca, uno scrivano impiegato al Teatro San Carlo di Napoli, sempre in cerca di nuovi espedienti per cercare di sbarcare il lunario e fuggire dall’assillo dei debiti. Felice, personaggio vestito della consueta e amara ironia che accomuna tanti personaggi “à là” Totò, vive con moglie e figlio in una piccola casa di corte, che condivide con lo squattrinato amico Pasquale (Enzo Turco).
Ed ecco che giunge la soluzione ad ogni problema: il marchese Eugenio Favetti, vecchio amico di Pasquale, offre alle due famiglie una via d’uscita. In cambio di un lauto compenso, Pasquale e Felice, e con loro mogli e figli, dovranno fingere di essere gli aristocratici parenti di Favetti. Il marchese vuole sposare Gemma, una ricca ballerina borghese. Al matrimonio si oppone il padre, Ottavio, per via delle origini popolari della giovane.
I due pover’uomini dovranno interpretare il ruolo di padre e zio del marchese, così che entrambe le famiglie, quella aristocratica e quella borghese, non si incontrino mai davvero e il matrimonio si possa tenere. La miseria indossa dunque i panni della nobiltà, con risvolti a tratti esilaranti, ma mai privi di quella sottile critica all’ipocrisia classista di quel tempo. Luigino, fratello di Gemma, si innamora della figlia di Felice durante una delle tante visite, e decide così di estinguere i debiti di tutta la famiglia dell’amata.
Datosi che, però, parliamo di miseria e nobiltà, i livelli sono destinati ad incrociarsi. Felice Sciosciammocca (Totò appunto) è uno spiantato che si arrangia nella Napoli di fine 1800, soprattutto fa lo scrivano. In un avanguardistico esempio di famiglia allargata (più per necessità che per convinzione) divide il suo appartamento con il figlio Giuseppe (Franco Melidoni), la compagna Luisella (Dolores Palumbo), l’amico Pasquale (Enzo Turco) un altro artista dell’arrangio, per la precisione un fotografo ambulante, la moglie di questi Concetta (Liana Billi) e la loro figlia Pupella (Valeria Moriconi). Inattesa, per Felice, giunge la richiesta di aiuto del giovane nobile Eugenio (Franco Pastorino) innamorato della ballerina Gemma (Sophia Loren).
Difficile dare torto al marchese Eugenio, siamo sinceri. Invece chi si oppone alla unione è l’ex cuoco don Gaetano (Gianni Cavalieri) che, essendo molto ricco, non ha necessità economiche particolari. Glio fa gola, però, acquisire un titolo nobiliare e, per dare il via libera all’unione, pretende di conoscere i genitori di Eugenio. La battuta che tutti ricordano si crea qui, ovvero “Vincenzo m’è pat” (Vincenzo è mio padre), linea che Peppiniello ripete con regolarità nel corso della pellicola.
In tutto questo bailamme, l’imbroglio va a segno e in più i “genitori” di Eugenio accettano, con poco sdegno, di essere invitati a pranzo dall’ex cuoco. Al pranzo i primi intoppi. La cameriera personale della Loren è Bettina (Giulia Melidoni) ovvero la ex di Felice, inviperita dai suoi continui tradimenti. Felice scopre, peraltro, scopre che Peppiniello lavora anche lui in quella casa. Ma proprio il bimbo sarà il motore della riappacificazione tra gli ex coniugi. Come se non bastasse anche il padre di Eugenio, sotto travisamento, corteggia Gemma. Insomma, un bell’intreccio, come degli spaghetti in una zuppiera.
Ed arriviamo così alla scena clou, che però non è alla fine del film, ma più o meno a metà. Sono tre i giorni che la “famiglia” di Felice esercita l’ascetica arte del digiuno, ovviamente contro ogni volontà. Arriva così un cuoco nella sala/camera da letto che, coadiuvato da due facchini imbandisce una tavola di classe sotto le pupille, e le papille, eccitate dei nostri eroi. Un pollo ma soprattutto dei fumanti spaghetti al pomodoro vengono serviti in tavola. All’inizio si avvicinano con fare sornione, poi la velocità aumenta ed è delirio, anzi gastrodelirio!
Sulla tavola, posta al centro del salotto, viene poggiato ogni tipo di ben di Dio. Pane, pesce fresco e altre leccornie vengono osservate con desiderio dai commensali. Totò (Felice) è chiaramente il protagonista della scena, complice la mimica facciale che ha contribuito al suo straordinario successo. Le famiglie devono mantenere una compostezza “nobiliare”, per salvare le impressioni nonostante siano terribilmente affamati. Il cibo, si sa, si mangia anche con gli occhi. Tuttavia, quando viene scoperta una teglia di spaghetti al pomodoro fumanti, ogni contegno viene abbandonato.
Non è un caso che Mattòli usi la pasta come “goccia che fa traboccare il vaso”, l’elemento di fronte al quale i presenti non riescono a resistere. Tra tante prelibatezze, le due famiglie scelgono di saziarsi proprio con gli spaghetti: pasto ideale di ogni italiano. Poiché la storia finisce con la pastasciutta, divorata senza bon ton, l’orario delle 12.15 sembra perfetto per rivedere uno dei migliori Totò, tratto della farsa di Scarpetta Miseria e nobiltà, uno dei sette film del comico interpretati nel ’54, l’anno del Medico dei pazzi e dell’Oro di Napoli di De Sica.
Pasquà tu con questa fame digerisci pure le corde di contrabbasso! - Dal Film Miseria e Nobiltà
La Scena Iconica degli Spaghetti
"Miseria e nobiltà" è una pellicola che tutti conoscono e persino chi non ha guardato l’intero film, comunque, si ricorderà di un Totò danzante, che con gli spaghetti in mano recita la celebre battuta: "non avevamo fame e facevamo quattro salti". In Miseria e Nobiltà lo spaghetto supera la sua dimensione alimentare per trasformarsi in un feticcio, in un simbolo che trascende la semplice nutrizione. Suscita sentimenti contrastanti nello spettatore. Da un lato verrebbe voglia di unirsi all’innocente baccanale, dall’altro si prova della intuibile repulsione per la scarsa igienicità della situazione. Ma si sa, la fame è fame! E allora che il banchetto cominci.
La scena più iconica del "Miseria e nobiltà" televisivo, quello più noto al grande pubblico, girato nel 1954, è sicuramente la scena del "piatto a tavola" con Totò-Felice Sciosciammocca mangia gli spaghetti e se li mette in tasca.
C'è un aneddoto che proprio Moriconi, nei panni di Pupella, la figlia di Pasquale il fotografo, raccontò in una intervista e che riguardava proprio il Principe della risata. Il film fu costellato da improvvisazioni di Totò che facevano scompisciare regista, troupe e gli stessi attori presenti in scena, trattenuti per non ridere e non sciupare quel momento. Valeria Moriconi ricorda la bellissima scena degli spaghetti.
A casa di don Felice lo scrivano e Pasquale il fotografo, con le loro famiglie affamate e allo stremo delle forze, arriva un dono: un pranzo con tutti i crismi. …Vedo gente con un colorito cianotico perché non poteva ridere e faceva fatica a trattenersi e vedo che Totò si era alzato, era salito sopra il tavolo e s’era inventato di mettersi gli spaghetti nelle tasche.
Chissà la scena quanto sarebbe andata avanti e invece il regista fu costretto a dare lo stop perché, mentre si infilava gli spaghetti nelle tasche, Totò aveva preso anche un zampirone messo dentro la pasta per fare il fumo e questo zampirone gli stava bruciando la tasca” “Stop, stop!” gridò Mattoli, allarmato: “Principe, attento! Scendete subito dal tavolo, state prendendo fuoco, toglietevi subito la giacca!” Totò si guardò la tasca che bruciava ed esclamò: “Madonna mia, ‘a giacchetta!! Me stavo appiccianno!”.
Mario Mattoli, innamorato del teatro e della rivista, mette in scena filmandola senza artifici la commedia, sceneggiata da un amico come Ruggero Maccari, come se il pubblico fosse in teatro: il risultato funziona alla grande, il cast è perfetto e le trovate del testo arrivano puntualmente a destinazione col gioco dei primi piani. Naturalmente il gioco sociale di equivoci è la gustosa satira del modo aristocratico visto da Felice Sciosciammocca, con l’intervento imprevisto di donna Luisella (Dolores Palumbo) che rischia di mandare tutto a monte.
Ma ovviamente le nozze ci saranno e tutto finisce con la famosa spaghettata in cui Totò, con una trovata tutta sua e non dell’autore, si riempie le tasche di spaghetti a ribadire che questo Felice, lo scrivano, somiglia agli eterni affamati della commedia dell’arte, da Pulcinella ad Arlecchino. Grazie all’affiatamento della compagnia, con Sophia e l’altra giovane e bella Valeria Moriconi, con i comici Turco, Sportelli, Croccolo e il marchese Giuseppe Porelli, la farsa, col gioco dei travestimenti delle classi sociali, è un comodo self service di ilarità che allora incassò la bella cifra di 592 milioni.
Il Ricordo della Fame e la Filosofia di Totò
Alla Sanità, dove Napoli è due volte Napoli, c’è una statua di Totò con un ciuffo di spaghetti in mano. Proprio come in Miseria e nobiltà , dove il principe della risata si riempie di vermicelli la bocca e anche le tasche, in previsione della fame futura. «Quella scena è la chiave di lettura della filosofia di Totò», dice Elena Anticoli de Curtis, nipote del grande comico, mentre ricorda, divertita e commossa, odori e sapori che hanno sempre condito l’esistenza di suo nonno.
Tornando a questo film, lei dice che la scena degli spaghetti è la chiave della filosofia di Totò. «Nel senso che nasce dal suo vissuto più intimo, dal ricordo della fame patita, che lui trasfigura e rende universale. Quando prende gli spaghetti con le mani e si mette a ballare la tarantella, trasforma Felice Sciosciammocca e i suoi affamati coinquilini, in una metafora della condizione umana quando è “in ballo”.
«Quei profumi me li porto sempre appresso. Nonna Nannina, la madre di Totò, era una donna morbida e burrosa, la classica mamma napoletana di una volta. Cominciava a cucinare alle 7 del mattino e verso le 11 si faceva la supponta, uno spuntino a base di spaghetti all’aglio e olio. «Adorava il buon cibo, ma detestava abbuffarsi.
A proposito di generosità, quella di Totò era proverbiale. «Non ha mai dimenticato la sua origine. Col favore delle tenebre poteva godersi indisturbato la città. «Spesso alla Bersagliera, uno dei ristoranti storici del Borgo Marinari, sotto il Castel dell’Ovo, dove conservano ancora le sue foto. «Aveva un’autentica passione per la pizza. «Rigorosamente marinara. D’altra parte, per le persone nate prima della guerra la pizza per antonomasia è sempre stata quella.
«Quella nera! A tale proposito raccontava sempre un aneddoto divertente. Nei primi anni di carriera passava intere giornate a digiuno forzato. Una mattina era con Edoardo De Filippo, che non se la passava meglio, quando videro un piccione che svolazzava. Si guardarono negli occhi e senza dirsi una parola piombarono sul pennuto.
La Ricetta degli Spaghetti di Pasquale
Una delle scene che amo di più è legata proprio al pignoramento del paltò di Pasquale, che ripropongo per intero per apprezzarne la genialità dei dialoghi e per fotografare un ricordo legato a mia nonna che mi spediva a far provviste, incaricata come Felice da Pasquale, elencandomi la spesa.
Pasquale fa la lista: linguine col sugo di pomodoro, preparato con sugna e salsicce, uova cotte col burro e la mozzarella, pane, vino, frutta secca, e «te fai da’ pure ‘na lira ‘n denaro». La risposta di Felice nel film (un’altra invenzione di Totò) è fulminante: «Oh Pasqua’ dimmi una cosa: ma qui dentro c’è il paltò di Napoleone?». Un cappotto vecchio e rammendato, che «s’arricorda ’o quarantotto» (così nella commedia): per quello - continua Felice - «’o putecaro» (il bottegaio) ti può dare al massimo «nu chilo e mmiezo de menuzzaglia». Non è altro che il residuo degli spaghetti che, allora e fino agli anni ’60, si vendevano sfusi. Il formato era lungo più del doppio di quello attuale e, quando era stato raggiunto il peso richiesto, il «putecaro», con un colpo secco, spezzava a metà la pasta prima di consegnarla. I residui venivano conservati in una madia e venduti a prezzi bassissimi.
Pasquale: Il bottegaio! Pasquale: Ti fai dare un bella buatta di pomodoro perché a me gli spaghetti piacciono pieni di sugo. A proposito, il sugo come lo facciamo, con la salsiccia?? Con la salsiccia! Ti fai dare un chilogrammo di salsiccia. Non pigliare quella stantia, quella già fatta. C’ha la macchina tritacarne: piglia la pelle taratatà taratatà taratatà. E poi rimaniamo asciutti asciutti, solo spaghetti e salsicce? Vogliamo fare una bella padellata di uova? Uova in padella? Pasquale: Allora 10 uova; assicurati che siano fresche, le agiti, se sono fresche le prendi, se no, desisti; come le vogliamo fare, con la mozzarella? Si, con la mozzarella, le uova vanno fatte con la mozzarella! Ti fai dare mezzo chilogrammo di mozzarelle di Aversa, assicurati che siano buone, pigli queste dita, premi la mozzarella, se cola il latte le prendi, se no desisti. Poi, che altro? Un po’ di frutta fresca. Ecco, ti fai dare pure cinque lire in contanti e vai dirimpetto dal vinaio a nome mio, di Don Pasquale il fotografo, e ti fai dare due litri di Gragnano frizzante, assicurati che sia Gragnano. Felice: ... Pasquale: Che altro?